Arlington, Virginia
Mercer spalancò la porta di ingresso, felice di essere di nuovo a casa. Rimase in piedi immobile per qualche minuto a guardare il sole che creava giochi di luce nell’atrio a due piani. L’aria era frizzante, un’ondata di freddo aveva avvolto Washington e doveva accendere la caldaia che era ancora spenta. Il pensiero di quell’incombenza squisitamente domestica gli recò un inatteso piacere, la sensazione che finalmente tutto stava tornando alla normalità.
Sul tavolo del soggiorno, che usava di rado, c’era una grande busta postale indirizzata a lui. La aprì incuriosito e vide che conteneva un unico foglio oltre a quello che a Washington è probabilmente considerato il fringe benefit più ambito: due targhe del corpo diplomatico. Sul foglio c’era scritto: “Un regalo da parte di tutta la popolazione degli Emirati Arabi. Parcheggia dove vuoi e accelera quanto vuoi.” Era firmato da Khalid Khuddari.
Mercer rise deliziato mentre si avviava sulla scala a chiocciola. Quando sentì squillare il telefono, fece di corsa gli ultimi scalini, attraversò il bar e afferrò il ricevitore.
“Meno male che ti trovo” disse Harry White con tono angosciato. “Stamattina mi sono dimenticato di comprare il giornale e non ho potuto controllare la soluzione dei cruciverba di ieri. Nove verticale. Fu sedotta da Zeus. Chi era?”
“Harry, sono rientrato in questo momento” brontolò Mercer girando attorno al bar e notando le quattro bottiglie di liquore vuote nel bidone dei rifiuti, che quando era partito non c’erano.
“Lo so, lo so, ma devi aiutarmi. Mi sta facendo diventare matto. Dai, fu sedotta da Zeus? Sono sicuro che tu lo sai” lo lusingò Harry.
“Leda?”
“No, non lei, quell’altra. Zeus si presentò a Leda sotto forma di un cigno, mentre quella che dico io venne sedotta da una doccia dorata.”
Mercer scoppiò a ridere e fece fatica a fermarsi. “Una doccia di oro, Harry, non una doccia dorata, c’è una bella differenza, credimi.”
Prese una birra nel frigo bar e vide una mezza bottiglia di vino in piedi vicino alla pila di lattine. Harry doveva essere stato in compagnia di una donna. Lo dimostravano anche i mozziconi di sigaretta nei portacenere. Non erano della marca abituale di Harry.
“Allora. Lo sai o no?”
“Guarda se ci sta Danae, mi sembra che fosse la madre di Perseo” disse Mercer distrattamente. Gli sembrava di aver sentito un rumore provenire dal piano di sopra, dalla camera da letto. Forse una tavola del pavimento che scricchiolava, o un mobile che veniva colpito leggermente.
“È giusta. Finalmente. Ehi, Tiny e io e un altro paio di ragazzi ci vediamo stasera per una partita a poker. Ti va?”
Mercer era teso. Qualcuno stava scendendo dalla scala a chiocciola con passi leggeri da ladro. Mercer bisbigliò nel ricevitore: “Harry, c’è qualcuno in casa mia. Chiama la polizia.”
“Cazzo, lo so che c’è qualcuno in casa tua. L’ho fatta entrare io, e le ho anche dato le mie chiavi” sbottò Harry.
Aggie Johnston entrò nel bar dalla biblioteca. Indossava un reggiseno di pizzo nero con slip abbinati e calze autoreggenti, sopra ai quali aveva infilato una delle camicie di Mercer. Il tessuto sfiorava la pelle candida delle cosce. I capelli erano lucenti e sistemati con una piega molto accattivante. Il trucco metteva sapientemente in risalto i suoi lineamenti, che Mercer trovava assolutamente splendidi. Era la seduzione in persona.
“Adesso devo proprio andare, Harry” balbettò e chiuse la telefonata.
“Sei in anticipo. Dick Henna ha detto che saresti arrivato in città verso sera. Volevo venire a prenderti all’aeroporto.” La sua voce era una miscela irresistibile di desiderio e di rammarico.
“Sono riuscito a prendere un volo che partiva prima” disse Mercer, tanto per dire qualcosa. La sua presenza lo aveva spiazzato completamente. Era in piedi davanti a lui e assorbiva completamente la sua attenzione, come se il suo cervello si rifiutasse di vedere qualsiasi altra cosa. “Pensavo che non ti avrei rivista mai più.”
“Anch’io.” Aggie attraversò la stanza e si avvicinò. Mercer poteva sentire il suo respiro sulla pelle mentre si ubriacava del suo profumo. “Non sono riuscita a starti lontana, anche se avrei voluto. So perfettamente che io e te non dureremo a lungo insieme, ma dovevo vederti. Mi hai stregata, mio malgrado.”
“Com’è andata?” chiese Mercer in un sussurro.
Un’ombra di fastidio attraversò per un attimo quegli occhi così incredibilmente verdi, perché lui le stava facendo una domanda seria proprio mentre lei era impegnata a sedurlo, ma sapeva che era una domanda dettata da sincero interesse. “Sto bene, è passato qualche giorno e ho avuto il tempo di digerirla.”
“E adesso cosa succederà?”
“Da quando mio padre è morto c’è un esercito di avvocati che mi perseguitano. Ieri ho fatto almeno mille firme solo per intestare a mio nome la Johnston Trust. Non abbiamo neanche cominciato ad affrontare i documenti della Petromax Oil.”
“Rileverai la compagnia?”
“È una vera ironia che un’ambientalista si ritrovi alla guida di una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo, non trovi?”
“Non riesco a immaginare nessuno di più adatto. Ti sarà molto più facile intervenire dall’interno che continuare a fare la guerra da fuori.”
Aggie sorrise, e dalla bocca la luce del suo sorriso illuminò i suoi occhi e tutta la sua persona. “È la stessa cosa che ho pensato io.”
“Ma io intendevo… che cosa succederà adesso tra noi due?”
Lei si accostò premendo il suo corpo contro quello di lui, con i piccoli seni appiattiti sul suo petto e infilando dolcemente una coscia tra le sue. “Adesso mi porti a letto e facciamo l’amore fino a che nessuno di noi due riuscirà più a camminare” rispose Aggie. “Ma siccome gli avvocati riusciranno a rintracciarmi, abbiamo solo un paio di giorni. E poi? Non lo so, Philip. Tu hai il tuo mondo e io ho il mio. Forse coincidono, lo sapremo solo con il tempo.”
Più tardi, quella stessa notte, Aggie e Mercer giacevano sfiniti in un groviglio di gambe e lenzuola, e solo dopo ore il loro respiro riprese un ritmo normale. Guardando il lucernario appena riparato, Aggie chiese a Mercer chi fosse stato a irrompere in casa sua.
“Non è stato tuo padre, se questo è quello a cui stavi pensando” disse Mercer. “L’FBI ha trovato nell’ufficio di tuo padre le ricevute di un investigatore privato che lui aveva assoldato qualche mese prima. Siccome eri tornata a Washington, Henna ritiene che si sia trattato solo di un eccesso di preoccupazione paterna.”
“È per questo che sapeva a che ora ero venuta da te?”
“Esattamente. Ed era l’investigatore privato quello che ho sentito andare via la sera del party di tuo padre dopo il primo attentato alla mia vita. Deve avermi seguito fino a casa dopo che ti ho accompagnato al tuo appartamento a Georgetown.”
“Era un uomo avido e disgustoso” disse Aggie riferendosi a suo padre e stringendosi ancora più forte al petto di Mercer, “ma è un sollievo scoprire che lui non c’entrava con l’attentato alla tua vita.”
Lui le spiegò la sua teoria sul suicidio di Max, e quel pensiero sembrò ammorbidirla nei confronti di suo padre. Mercer tralasciò però di dirle un dettaglio, qualcosa che lui stesso stentava a credere. Qualcosa che gli aveva detto Dick Henna quando Mercer era in convalescenza ad Abu Dhabi con Wayne Bigelow.
Il detonatore usato per liberare l’azoto liquido sull’Alaska Pipeline, quello attivato da Jan Voerhoven, non era lo stesso che era stato usato per attivare il virus nella rete informatica di Alyeska. Quello era stato attivato mentre Mercer era al centro operativo del terminal, quindici minuti dopo l’esplosione della Hope. Henna e Mercer erano giunti alla stessa conclusione.
Ivan Kerikov è ancora vivo.